Certo, fa uno strano effetto leggere – scritte nero su bianco –  formule algebriche, medie aritmetiche, frasi che parlano di insiemi e sotto-insiemi mentre si sta sfogliando il Decreto ministeriale intitolato «Nuovi criteri e modalità per l’erogazione, l’anticipazione e la liquidazione dei contributi allo spettacolo dal vivo, a valere sul fondo unico per lo spettacolo di cui alla legge 30 aprile 1985, n. 163». Parliamo della tanto attesa riforma sul teatro prevista dal Decreto Legge «Valore Cultura» che il ministro per i Beni e le Attività Culturali Dario Franceschini si accinge a varare. Il testo è stato inviato alla Conferenza Unificata (composta da Regione, Provincia e Comune) che dovrà dare il suo parere, necessario ma non vincolante, entro sessanta giorni. I numeri fanno una certa impressione, ma diventano drammatici dopo aver fatto due conti, quando cioè ci si accorge che resta fuori circa la metà delle compagnie e dei teatri finora finanziati. Alcuni elementi di novità ci sono e riguardano, per esempio, la nascita dei Teatri nazionali (ma quanti e quali saranno?); l’apertura ai giovani che potranno finalmente chiedere un finanziamento senza aspettare i tre anni; il sostegno alle residenze; la triennalità dei progetti di attività musicali, teatrali, di danza e circensi.
Fermiamoci per un attimo al primo punto. Non esisteranno più i Teatri Stabili così come noi li intendiamo (oggi in Italia sono 17), che saranno sostituiti dai Teatri Nazionali (sono così definiti «gli organismi che svolgono attività teatrale di notevole prestigio nazionale e internazionale e che si connotino per la loro tradizione e storicità»). Fra i criteri richiesti: 240 giornate recitative di produzione all’anno, 15000 giornate lavorative, almeno 1000 posti complessivi e l’impegno di enti territoriali o altri enti pubblici a concedere contributi per una somma complessiva pari al cento per cento del contributo statale.
Probabilmente ogni Regione vorrà avere il proprio Teatro Nazionale, di sicuro non potranno farne a meno le grandi città, Roma compresa, nonostante la situazione assurda e imbarazzante che sta vivendo (il Teatro di Roma, dopo aver perso solo dopo due mesi Ninni Cutaia perché «incompatibile», è ancora senza direttore… per ora il nome che sembra avere più probabilità di farcela è quello di Antonio Calbi). A proposito, il direttore, di nomina ministeriale, non potrà svolgere attività artistica. Si eviteranno così, finalmente, quelle spiacevoli situazioni in cui i registi direttori di teatro mettono in cartellone, guarda caso, i propri spettacoli.
Veniamo ora ai «teatri di rilevante interesse culturale», ovvero gli «organismi che svolgano attività di produzione teatrale di rilevante interesse culturale prevalentemente nell’ambito della regione di appartenenza». I criteri richiesti, in questo caso sono: 160 giornate recitative di produzione l’anno, 6000 giornate lavorative, 400 posti in totale e l’impegno di enti territoriali o altri enti pubblici a concedere contributi per una somma complessivamente pari al cinquanta per cento del contributo statale.
E qui scatta il campanello d’allarme da parte dei privati che hanno la loro sede da Roma in giù. Eh sì, perché chi dirige e gestisce le sale private nel centro-sud non ha certo i numeri di cui si parla nel decreto. In poche parole: chi riesce ad avere il 50% di contributi pubblici? Ben pochi, dunque, automaticamente sono fuori molti, moltissimi teatri. Ed ecco che proprio dai privati arriva il grido disperato: questo decreto spacca l’Italia in due, escludendo automaticamente la metà dei teatri. Non solo. La situazione peggiora se andiamo avanti nella lettura del decreto: imprese di produzione teatrale, centri di produzione, per non parlare della danza… C’è poco da fare, i criteri richiesti sono molto lontani dalla realtà.
Numeri, numeri, numeri. Ecco il punto debole del testo, che fa fuori in un colpo solo i «piccoli» e i deboli e che risulta essere fin troppo burocratico. Leggere l’allegato A per credere: le formule algebriche non s’erano davvero ancora mai viste. Speriamo che il ministro Franceschini abbia il tempo di rivedere il testo, perché così com’è lascia scontenti tanti, anzi troppi.
Francesca De Sanctis

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